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MA FINO A QUANDO?

Le disuguaglianze economiche e sociali in Italia

Il mondo ha fatto progressi significativi nella riduzione della povertà: negli ultimi trent’anni più di un miliardo di persone è uscito da una condizione di povertà estrema. Tuttavia, nello stesso periodo la percentuale di reddito della metà più povera dell’umanità è rimasta pressoché invariata, nonostante la produzione economica mondiale sia più che triplicata dal 1990. Le disuguaglianze compromettono il progresso economico che a sua volta acuisce le disparità sociali create dalle ineguaglianze.

Le disuguaglianze derivanti da reddito, posizione geografica, genere, età, etnia, disabilità, orientamento sessuale, classe sociale e religione, continuano a esistere all’interno e fra i diversi Paesi, condizionando parità di accesso, opportunità e esiti. In alcune parti del mondo, queste disparità stanno diventando più evidenti. Nel frattempo, stanno emergendo divari in nuovi ambiti, quali accesso alle tecnologie mobili e web.

UN75 – I grandi temi: disuguaglianza, come colmare il divario – 13 febbraio 2020

Gli obiettivi della Risoluzione adottata dalle Nazioni Unite il 25 settembre 2015, riguardante l’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile.

Il filo conduttore dell’intera Risoluzione è dato dallo “sviluppo sostenibile”, che deve riguardare sia la creazione di ricchezza sia la sua distribuzione nel rispetto delle fonti e degli agenti: dobbiamo sviluppare l’economia mondiale rispettando la limitatezza delle fonti naturali, evitando l’intensività dello sviluppo che porti danni ad aree e/o persone per l’esclusivo vantaggio di altre persone, seguendo l’obiettivo di una equa distribuzione della ricchezza creata, tra le fonti che l’hanno generata, vale a dire la natura, il capitale e il lavoro.

Che cosa e da quando

Un po’ di storia per comprendere il presente e progettare il futuro sembra necessaria. Riepilogando quanto è accaduto, possiamo ricordare:

  • Le società ternarie, dove tutto era di competenza del Clero e della Nobiltà, lasciando al Terzo Stato solo il lavoro più becero, che non consentiva neanche di sopravvivere.
  • Nel corso del XVIII e del XIX secolo ci fu un progressivo passaggio verso la Società dei Proprietari, dove fu il latifondismo a dominare la scena fino alla prima guerra mondiale, quando la proprietà terriera era concentrata in pochissime mani (il 10% dei più ricchi deteneva il 90% della proprietà).
  • Fu la guerra 1914-18 che determinò un vero rimescolamento delle carte.
  • Seguì, nel periodo compreso tra la due guerre, una fase di grande turbamento che trovò la sua conclusione solo negli anni cinquanta del Novecento.
  • A partire appunto dagli anni cinquanta ci furono progetti di ricostruzione che gettarono le basi per una nuova socializzazione ed una distribuzione più equa dei redditi, tali da determinare una maggiore distribuzione della ricchezza.
  • I successivi anni sessanta e settanta furono caratterizzati da una grande forza sindacale e da un diffuso convincimento che il lavoro rappresentasse un fattore molto importante nel raggiungimento degli obiettivi aziendali, consentendo la realizzazione di una distribuzione dei redditi maggiormente diffusa.
  • Gli anni settanta furono quelli in cui cercarono di affermarsi in Europa le social-democrazie che, nelle intenzioni, erano destinate a far convivere il capitalismo e il socialismo/comunismo democratico, ma anche quelli della diffusione degli “home computer” e della nascita di Internet.
  • Gli anni ottanta furono quelli del passaggio epocale, dell’avvio del processo di globalizzazione, che nacque all’insegna di “miglioramenti per tutti”. Sono gli anni della presidenza di Ronald Reagan, che col taglio del 25% dell’imposta sul reddito (che, naturalmente, avvantaggiò soprattutto le maggiori classi di reddito), dalla riduzione dei tassi d’interesse, dall’aumento delle spese militari e anche del deficit e del debito pubblico, dopo una recessione nel biennio tra il 1981 e il 1982, spinse sulla ripresa nel 1983, per liberare i mercati da vincoli e regole, nella convinzione, almeno dichiarata, che fossero destinati a creare valore e ricchezza per tutti, siano essi portatori di capitale oppure portatori di lavoro.
  • Erano gli anni in cui si diffondeva il mantra che “i mercati, liberi da regole, avrebbe reso tutti più ricchi”. In realtà, passando dalla storia alla cronaca, possiamo dire che più ricchi sono diventati coloro che ricco lo era già, utilizzando spesso senza regole gli altri fattori della produzione (la natura e il lavoro).

Passando dalla storia alla cronaca, la fase successiva è stata caratterizzata dalla:

  • ripresa della tendenza a concentrare i redditi e la ricchezza in poche mani;
  • nascita e lo sviluppo di nuove figure di imprenditori, di manager, di direttori e di dirigenti che hanno dato vita a forme nuove di ipercapitalismo che hanno guidato la crescita economica degli ultimi quarant’anni;
  • presenza di una politica elastica che costituisse un vero supporto alla creazione di valore per le imprese ipercapitalistiche, condizionate da un progressivo e infestante ruolo di guida fornito dalla finanza.

Negli anni ottanta del Novecento è stata avviata, in realtà, una vera rivoluzione orientata alla restaurazione delle classi di fine ottocento, dove, naturalmente, è cambiato tutto, ma non le disuguaglianze nella distribuzione di redditi e ricchezza.
Importante non è stato il miglioramento della vita dei lavoratori, promesso con l’avvento della globalizzazione, quale elemento attivo e dinamico nel processo produttivo aziendale, bensì la determinazione e la guida di un ampio, profondo e duraturo miglioramento dello stato del “portatore di capitali”, che ha avuto a disposizione una rinnovata ed assoluta gestione delle risorse umane, resa potente fino a consentire una de-umanizzazione del personale e all’avvento della concorrenza al ribasso tra le forza di lavoro disponibili.

Lo sviluppo e la crescita degli ultimi quarant’anni stanno a dimostrare che:

  • è cambiato il rapporto di forza tra capitale e lavoro;
  • siamo stati poco attenti alle tendenze di fondo, lasciandoci prendere la mano dal momentum: le aspettative e la voglia di successo hanno invaso intere generazioni, lasciando loro l’idea che fosse sufficiente un ruolo (e uno stipendio) da manager per credere di possedere il mondo, dimenticandosi che, non sempre, il benessere individuale e quello collettivo coincidono;
  • l’azienda si è spesso trovata con manager iper-pagati e collaboratori demotivati, non messi in condizione di crescere e mettere a frutto tutte le proprie potenzialità;
  • è stato introdotto il concetto di precarietà, tra i ranghi medio-bassi dei lavoratori, che è stato subìto prima e accettato dopo, in un mercato del lavoro sempre più guidato da una concorrenza al ribasso;
  • il costo del lavoro è stato progressivamente ridotto, dando spazio così a remunerazioni del capitale eccessive, premiando oltre misura solo coloro che le hanno generate;
  • la remunerazione del lavoro è stata così sempre più contratta, portando ad una precarizzazione dell’intera vita del lavoratore;
  • l’utilizzo sempre più marcato della robotizzazione sta completando il quadro, facendo aumentare le distanze tra competenze (del lavoratore) e disponibilità (del datore di lavoro).

Ma fino a quando?

Fino a quando riusciremo ad andare avanti senza voler vedere?
Cosa deve succedere ancora perché la nostra attenzioni venga attirata dalla insostenibilità di questo tipo di economia, centrata esclusivamente sull’inarrestabile tendenza all’accumulo?
Fino a quando le aree più povere del pianeta resteranno adagiate sulla loro povertà?
Se è vero che la distribuzione dei redditi e delle ricchezze deve considerare il vero “valore” di chi li acquisisce, è altrettanto vero che tutti, ma proprio tutti devono essere messi in condizione almeno di gareggiare.

Che cosa possiamo fare?

Se nulla sarà fatto nei prossimi otto anni, nel 2030 avremo un ulteriore incremento della quota di reddito del 10% più ricco di individui, che passerà dal 32,2% del 2021 al 35,4% del 2030 (con un +9,9%), in diminuzione invece sarà il peso della quota di reddito percepita dal 40% intermedio (da 47,1% a 45,9%, quindi una variazione del -2,5%), così come del reddito percepito del 50% più povero (da 20,7% a 18,7%, vale a dire -9,8%).

Sembra ovvio pensare, che le posizioni estreme subirebbero le conseguenze più eclatanti, con il decile del 10% più povero che perderebbe un ulteriore 24% della quota di reddito complessivo, passando dallo 0,33% allo 0,25%, mentre il percentile dell’1% più ricco accelererebbe ulteriormente la propria concentrazione, passando dal 8,7% del 2021 al 10,1% del 2030, con un aumento del 16,2%.

È chiaro, quindi, che occorrono interventi per invertire, o almeno, arrestare il trend, badando soprattutto a porre un freno al sistema diffuso di precarizzazione delle attività lavorative.
Gli interventi necessari riguardano:

  • un’adeguata pianificazione e diffusione di una formazione, coerente con le caratteristiche richieste dalla nuova offerta di lavoro;
  • una profonda Revisione della fiscalità, che risulti più adeguata alla crescita esponenziale dei redditi delle classi più alte di percettori.

In un interessante articolo a firma Giorgio La Malfa e Luigi Zanda, apparso su Repubblica del 29 aprile 2021, viene scritto: “[…] l’affermazione dell’idea di un mercato totalmente privo di vincoli e la riduzione del ruolo dello Stato, che hanno dominato il mondo negli ultimi 40 anni, hanno reso impossibile quelle politiche di redistribuzione dei redditi che, fino all’avvento di Reagan e Thatcher, avevano accompagnato il dopoguerra. Ma il capitalismo sfrenato, sperimentato a cavallo del secolo, porta con sé disuguaglianze ed esclusione sociale. E se le forze democratiche di sinistra non sono in grado di dare risposte a questi problemi, cedono la rappresentanza del disagio sociale alla destra estrema, come si è visto nella Francia dei Le Pen o negli Stati Uniti di Trump“.
Potremo, forse e se lo vogliamo, intervenire sulla rettifica delle distorsioni generali riguardanti la distribuzione di redditi e ricchezza fra la popolazione esistente, ma non potremo farlo seriamente e profondamente se non cambiando l’approccio di fondo verso la società attuale: non è più concepibile che il potere di pochi gestisca la vita di molti, non è più possibile accettare supinamente e quasi con compiacenza le “briciole ai cani” lanciate dal banchetto dei ricchi e potenti.
Occorre riprendere coscienza del proprio stato e delle rinunce dei propri interessi avvenuta in questi ultimi quarant’anni. Se un intervento viene spacciato come opportunità comune (come la globalizzazione e l’onnipotenza dei mercati piuttosto che come la robotizzazione diffusa delle attività produttive, con conseguente espulsione del lavoro marginale) deve portare un vero bene comune, controllato e verificato nel continuo, e non lasciato in balìa delle velleità organizzative aziendali, senza alcuna regola e senza alcun controllo. Lo Stato deve esserci per il suo ruolo storicamente dominante: deve garantire una vera uguaglianza tra tutte le forze esistenti, di lavoro o di capitale esse siano, con una pari dignità e pari opportunità.